Il mese scorso abbiamo ospitato per un evento formativo di approfondimento sulle dipendenze Paola Zagnagnoli e Alessandro Venuto. Riprendiamo ora il tema con questa ricerca che focalizza il protocollo MBRP (Mindfulness Based on Relapse Prevention) applicato nel carcere di San Gimignano e che anche Paola Zagnagnoli applica presso il carcere di Brescia. Durante il recente evento Alessandro Venuto ha invece portato la sua prospettiva che è quella di operare in comunità dove da anni utilizza per le dipendenze un approccio basato sulla resilienza.
La sintesi che segue è tratta dall’Articolo Utilizzo del protocollo MBRP in un contesto carcerario di Mateo Ameglio, Barbara Cincinelli, Sicilia Francesca D’Arista, Elisa Tanzini.
L’articolo è apparso sulla rivista Mission 50, Italian Quarterly Journal of Addiction
Nell’ambito delle tossicodipendenze, un approccio che ha dato prove di efficacia è il Mindfulness Based Relapse Prevention. Il programma MBRP integra le pratiche di mindfulness derivanti dai protocolli MBSR di J. Kabat-Zinn e MBCT di Z. Segal con le strategie cognitivo-comportamentali di “Prevenzione delle Ricadute” (Daley e Marlatt).
Le pratiche di cui è composto il programma MBRP hanno lo scopo di promuovere e favorire maggiore consapevolezza dei trigger legati all’uso di sostanze, agli schemi abituali implicati nei comportamenti di dipendenza e delle reazioni “da pilota automatico” che portano a mettere in atto comportamenti disfunzionali di uso e abuso.
Gli autori scrivono “La nostra ultraventennale esperienza clinica presso la Casa di Reclusione di San Gimignano, rivolta ai detenuti con problematiche alcol-drogacorrelate, ci ha indotti a sperimentare in tale contesto il protocollo MBRP, utilizzando come guida la versione tradotta nel 2013 del manuale originario (Bowen, Chawla e Marlatt, 2013)
La scelta di effettuare un gruppo MBRP in un contesto carcerario nasce dalla constatazione che un ambiente di quel tipo, può garantire sobrietà dall’uso di sostanze e la necessaria continuità per l’apprendimento. Il carcere è del resto un contesto “protetto” che consente una funzione di contenimento mentale in soggetti con vulnerabilità. Ma bisogna ricordare che il carcere è anche un luogo dove vengono favoriti stati emozionali negativi.
Anche questo protocollo incontra le difficoltà tipiche del contesto carcerario. Sempre dagli autori:
“• l’orario a nostra disposizione è risultato non sufficiente a svolgere tutto il protocollo previsto, soprattutto è mancato il tempo per approfondire ed elaborare i contenuti emersi e per la condivisione finale sull’esperienza svolta. Dalle due ore iniziali si è passati ad un’ora e quaranta minuti per esigenze organizzative della struttura; • per motivi di spazio … è stato difficoltoso effettuare la parte relativa al Movimento consapevole ed impossibile quella della Meditazione camminata; • le esperienze di meditazione sono state talvolta rese difficoltose a causa delle interferenze sonore ambientali; • è stato inoltre difficile per i partecipanti poter ascoltare i CD audio nella loro stanza per mancanza di lettore, per imbarazzo nei confronti del compagno di stanza, per condizioni logistiche che non permettevano uno spazio adeguato di raccoglimento. Questo ha comportato una scarsa adesione all’impegno di esercitazione infrasettimanale.
Gli autori affinano il protocollo tra il primo gruppo del 2015, nella sezione di media sicurezza e il secondo del 2017, nella sezione di massima sicurezza, cercando di superare le difficoltà dovute alla specificità del contesto, “L’esigenza di trattare un numero minore di tematiche e pratiche in ogni incontro, è stata affrontata trasformando il protocollo da 8 a 10 incontri, che sono stati peraltro realizzati inizialmente a cadenza quindicinale, inframezzati da incontri aggiuntivi di supporto alla pratica…….“
Una delle conclusioni è che “il gruppo ha compreso il metodo, adeguandolo alle proprie esigenze, come se nell’isolamento vissuto e nelle condizioni quotidiane di pressione continua ciascuno avesse trovato un modo semplice per ritrovare sé stesso ed evolvere. Il metodo maggiormente utilizzato è stata la meditazione, l’osservazione di pensieri ed emozioni, quel che era possibile effettuare anche senza l’utilizzo degli ausili”.
All’interno del protocollo viene insegnata la pratica SOBER che permette ai partecipanti di riconoscere nella quotidianità un momento difficile emotivamente. La pratica del SOBER, molto felice se letta nell’acronimo inglese (sober=sobrio), consiste nella messa in pratica dei seguenti passaggi:
S (stop) – Stop – Prenditi qualche istante per interrompere il pilota automatico e per riconoscere che ti trovi in una situazione per te difficile.
O (observe) – Osserva – Osserva e nota cosa sta avvenendo nel tuo momento presente, descrivi le sensazioni del corpo, le emozioni e i pensieri che la tua mente fa in questo momento presente.
B (breath)- Il Respiro – Scegli e porta in modo deciso e gentile tutta la tua consapevolezza sul respiro, semplicemente notando il tuo respiro.
E (expand) – Espandi la consapevolezza – Espandi la consapevolezza a tutto il corpo, nota il tuo corpo che respira. Allarga ancora la tua consapevolezza all’ambiente in cui ti trovi e alle sensazioni del momento presente.
R (respond) – Rispondi – Scegli quale risposta dare in questo momento presente, che sia utile per te e non dannosa (considera anche il “non-agire” come risposta).
La pratica, che viene di frequente provata dai partecipanti e letta come “quella più utile”, può essere estesa anche ad ambiti diversi dal campo delle dipendenze. Potrebbe essere uno strumento utile da utilizzare anche in setting individuali (o di gruppo) quando ci si trova di fronte a persone che riportano difficoltà legate alla gestione dell’impulsività e della reattività.
Ci fa piacere ricordare che la nostra collega Lisa Favalli, insieme a Claudio Pupilli, partecipò nel carcere di San Gimignano agli incontri condotti dai dottori Ameglio e Cincinelli, conducendo in particolare la parte relativa alla consapevolezza del movimento, ai principi di rilassamento e meditazione.