La rubrica I notturni è considerata quella della riflessione più intima.
Lasciamo spazio con grande piacere a due contributi degli operatori in formazione che proprio in questo fine settimana sono a Pomaia per il secondo modulo del corso.
La foto è proprio di stasera: appena arrivati, si sono raccolti intorno a quella luce, facendosi tutti un po’ più stretti del solito.
Ci sarà tanto da condividere, con grande intensità.
Un abbraccio a tutti voi e grazie a Elena Ripamonti e ad Alessandro Chiarelli per il contributo.

Elena
Chi ha sentito sul suo corpo la mano pesante di un uomo conosce il sapore amaro dell’arresa di fronte al potere e sa che a colpirla non è un uomo solo, ma generazioni di uomini e di donne che hanno sostenuto un conflitto oggi divenuto travolgente. Un conflitto dove vittime e carnefici sembrano chiari nei loro ruoli a un primo sguardo. Ma se cerchiamo la sofferenza e non le colpe, tutto diventa più incerto.

Come operatori di LPP siamo difronte a una responsabilità e opportunità importante di poter contribuire positivamente alla trasformazione di questa sofferenza. Non solo con il lavoro nelle carceri, ma ancor prima con i progetti di prevenzione nelle scuole, luogo dove il conflitto è forse ancora malleabile e dove insegnare a disinnescare la sofferenza che i miti culturali maschili alimentano nei nostri futuri uomini. Sono solo semi che possiamo gettare, non perdendo (difficile in questo momento) la fiducia che fioriranno in una trasformazione positiva. Solo semi, ma se non fossi entrata in LPP forse proverei solo disperazione.

Alessandro
– di Mariangela Gualtieri
Non so perché tanta rovina cada infuriata sui corpi inermi delle Madonne. Perché ancora e così tanto la forza, con manubri di pesantezza, corde e martelli e nude mani, la forza impazzita rovini tanta grazia di facce, di pance, di vagine e pance in cui si getta un seme come uno sparo che castiga, un insulto alla radice nostra.
Non so perché la metà della specie questa mia, per millenni murata nell’espressione, costretta, rinchiusa, zittita, bastonata. E i dottori e i padri grandi nelle generazioni abbiano trovato in questa carne mia una minaccia anziché una gioia – il marchio di un inferno, la trappola di un Dio che non allatta e che non ride. Guarda io rido. Da qui. Da questa carne, così felice di essere la parte sanguinante di partorire, di essere l’avamposto di grazia somigliante così alle stagioni, alla luna, alle ondeggianti danze delle piante. E tu? Quanto tremavi lontano dalla mamma.
Anche per te io faccio un canto, in quale direzione o strato dei mondi, a quale divinità tra le tante immobili o angelo invisibile o calda protettrice intatta. Non so, non so, non importa.
Trasformare il dolore in bellezza. Qualcuno c’è riuscito. Sempre sempre. È nostro, questo. È di noi.