Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo.

È l’incipit di Cronaca di una morte annunciata, il romanzo del premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, che racconta la morte di Santiago Nasar, ucciso per mano dei fratelli Vicario in un piccolo paese sulla costa della Colombia.
Che Santiago morirà, lo sappiamo dalla prima riga. Lo sanno i lettori, e lo sapevano gli abitanti del paese, perché i gemelli Vicario stessi avevano sparso la voce ai quattro venti, con il malcelato intento di mettere sull’avviso la vittima, affinché scappasse.
Tutti sapevano ma nessuno ha fatto nulla, e Santiago è stato ucciso.
Tutti sapevano, un po’ come oggi tutti sappiamo che, nel giro di qualche giorno, la lista delle donne uccise dagli uomini si allungherà ancora.
Nessuno ha fatto nulla per Santiago, un po’ come oggi, quello che si fa per prevenire i femminicidi – se non si può dire che sia nulla – è davvero troppo poco.
Santiago Nasar è morto perché Angela Vicario, la sorella minore dei due assassini, si era appena maritata con Bayardo San Roman, figlio di un potente Generale dell’esercito. Andò che la prima notte di nozze Bayardo scoprì che Angela non era più vergine e, come si usava a quel tempo, la ripudiò. La restituì alla sua famiglia, come una merce difettosa.
Le donne, in Italia, muoiono perché osano essere libere. Gli uomini le uccidono perché non tollerano di essere lasciati e respinti; non intendono che possano essere libere di scegliere la propria vita.
C’è un trait d’union in queste dinamiche: ed è che sia Santiago, sia le donne uccise dai loro ex-compagni, muoiono perché agiscono in un modo che i loro assassini considerano meritevole di punizione.
L’idea della punizione nasce dal ritenere che le norme della convivenza sociale sono state violate.
Santiago viene punito per aver colto il frutto di Angela, che era destinato al marito, Le donne vengono uccise perché non obbediscono alle aspettative dei loro compagni o aspiranti tali.
Ma come accade che si decida di uccidere una persona?
In linea generale ogni condotta umana, compresa quella criminale, è la sintesi di due fattori, uno attiene alle caratteristiche dell’identità personale e l’altro alla dimensione sociale-culturale in cui agisce l’individuo. Più nello specifico, ogni persona mette in scena sé stessa nel teatro del mondo cercando un equilibrio tra queste due polarità per cui, soggettivamente la condotta umana è condizionata dal tipo di personalità e dal grado di intelligenza emotiva acquisita, mentre socialmente, è il grado di interiorizzazione dei valori fondanti del gruppo correlato all’autonomia decisionale maturata in relazione a quegli stessi valori.
Nello specifico la volontà di uccidere nasce quindi come esito dell’interazione tra queste due variabili.
La prima è che in quel sistema di valori sociali, l’omicidio di chi ha “offeso”, è la condizione per la riabilitazione dell’onore familiare.
La seconda è l’assenza di pensiero critico nei gemelli Vicario, che non hanno sufficiente margine di autonomia a fronte di una condotta, per così dire, socialmente indotta, che pone l’omicidio come un dovere da compiere.
Ecco, in estrema sintesi, cosa ha mosso le mani omicide.
I gemelli lasceranno il carcere dopo una condanna a tre anni di reclusione.
Non sappiamo se sono diventati consapevoli che togliere a una persona la possibilità di godere del dono della vita è una enormità.
Non sappiamo se la detenzione li ha restituiti al mondo consapevoli e pacificati oppure rabbiosi e disperati.
Non sappiamo se hanno incontrato qualcuno che li ha aiutati a imparare ad amare.
Loro forse avrebbero detto che hanno agito per amore della loro famiglia, così come gli assassini delle donne sostengono di aver ucciso le “loro” donne per amore.
Ma l’amore senza consapevolezza è un amore malato, e genera possessività. L’amore senza consapevolezza è la proiezione dei propri bisogni riversati sull’altro. Nell’amore senza consapevolezza l’altro è qualcosa che ci serve, e che deve conformarsi ai nostri desideri.
Del resto, conformarsi ai desideri dell’uomo, è il dovere che è stato imposto alle donne per secoli. La cultura, la legge e la religione erano coerenti nel disegnare un assetto sociale che stabiliva la predominanza maschile.
Solo negli ultimi decenni la donna è diventata – giuridicamente parlando – una persona libera di autodeterminarsi, con gli stessi diritti di un uomo.
Ma molti maschi non hanno interiorizzato questo mutamento epocale e continuano a fare riferimento ai valori della società patriarcale.
I maschi ancorati al passato, che non coltivano strumenti cognitivi ed emotivi per rapportarsi alla pari con le donne, quando vengono lasciati si sentono offesi nella loro autorità. Rabbiosi e disperati, diventano inclini a gesti violenti.
Ma si può anche invertire il ragionamento: molti dei maschi che provano a vivere un rapporto paritario, hanno comunque scarse risorse cognitive ed emotive e nelle situazioni di crisi si ancorano al passato patriarcale come l’unica modalità possibile (per la loro assenza di competenze) per relazionarsi con una donna. Il passo successivo è la violenza.
Sono due facce della stessa medaglia: il fattore culturale ereditato dal patriarcato e la personalità fragile, emotivamente inadeguata, interagiscono in modi diversi in ogni maschio violento, ma sono sempre presenti entrambi.
Questo tipo di maschio, quando viene lasciato, sembra cronicizzare una sorta di sequestro emozionale permanente.

A fronte della decisione di uccidere, l’aumento delle pene, i divieti di avvicinamento o i braccialetti elettronici possono molto poco.
Suona paradossale, ma l’unico modo di salvare le donne è favorire cause e condizioni affinché gli uomini non maturino la volontà di ucciderle.
Se, come abbiamo ipotizzato, la volontà femminicida è influenzata dalle variabili soggettiva e sociale, è su questi aspetti, intimamente correlati, che occorre concentrare la prevenzione.
La mission di Liberation Prison Project è quella di fornire strumenti utili alle persone detenute, per poter utilizzare nel modo migliore il periodo della carcerazione, lavorando su di sé attraverso un sentiero di consapevolezza. Gli strumenti che gli operatori usano sono pratiche di mindfulness e pratiche dharma oriented.
All’interno del contesto carcerario il lavoro sulla consapevolezza delle emozioni fornisce mezzi abili per uno sviluppo personale e di conoscenza di sé, favorisce l’auto-osservazione e l’elaborazione di temi riscontrabili nella vita quotidiana.
Questo lavoro su base personale ha ricadute sociali evidenti, nel momento in cui la persona trasforma il proprio modo di agire e si pone diversamente verso gli altri.
Ma favorire una maggiore capacità di regolazione emotiva da parte di ogni persona, non solo quelle detenute, è uno degli obbiettivi che LPP intende perseguire con ancora maggiore convinzione, estendendo le sue attività alle scuole primarie e secondarie, alle università, alle aziende, al settore pubblico, e non ultimo a chi lavora nel mondo carcerario, che per osmosi diventa portatore della stessa sofferenza che incontra quotidianamente.
LPP crede che attraverso la diffusione di cultura consapevole si possano recuperare quelle sacche di resistenza al cambiamento sociale che ancora si ispirano al modello patriarcale.
Tutto passa attraverso la consapevolezza, sia a livello sociale che individuale.
Il benessere psicologico e la buona salute mentale passano attraverso la capacità di riconoscere, gestire, ed esprimere in modo appropriato le emozioni che si provano.
Ogni piccolo progresso nella direzione della consapevolezza riduce in modo esponenziale il rischio di agiti violenti.
Per questo motivo LPP, che lavora storicamente con le persone detenute, sta iniziando a guardare anche fuori dal carcere, perché le sbarre e i muri che tengono prigioniere le persone non sono fatti solo di ferro e di cemento, bensì di pregiudizi, fragilità e incapacità di comunicare.
Vogliamo piantare i semi del futuro dovunque sia possibile perché ogni essere umano, bambino, ragazzo o adulto, che apre il suo cuore all’amore consapevole, salva il mondo.