Qui generalmente gli operatori portano le loro testimonianze legate all’attività in carcere. Ci fa piacere però oggi dare spazio in questa rubrica alle parole di due allievi-operatori a mo’ di incoraggiamento e di ulteriore benvenuto -a loro e a tutti- perché davvero il viaggio più intenso sta per cominciare.
Alessandro Chiarelli e Miriam Lippolis ci hanno raccontato come è stata per loro la conclusione del percorso di formazione in presenza che vedrà -a giorni- la prosecuzione con l’inizio del tirocinio in carcere.
Per tutti gli allievi-operatori l’augurio per nuovi in intensi passi nel percorso!

Alessandro ci condivide queste parole che intitola Il Mare
La formazione che mi ha reso un operatore di Liberation Prison Project si è conclusa salendo su un barcone disegnato sul pavimento, assieme ai miei compagni di corso. Era un barcone piccolo per accoglierci tutti e allora abbiamo dovuto stringerci, ammassarci, stiparci uno a fianco all’altro. Se qualcuno, specie quelli finiti al centro della barca, non aveva dove stendere le gambe, negoziava lo spazio con quelli a lato, che si facevano in là. Ognuno offriva e chiedeva appoggio e sostegno nello stesso istante, perché la navigazione in uno spazio tanto angusto richiede di essere una cosa che si muove al ritmo stesso delle onde, in armonia con il respiro del mare.
Dicevo a me stesso; impara a fluire, “impara a navigare nel mare agitato delle tue emozioni”.
“Guarda gli altri”, mi sono detto, “anche loro fluiscono, si tengono a qualcuno e a qualcuno offrono appiglio, non è questa forse la condizione di ogni essere umano?”.
Lo era più che mai lì, perché il barcone navigava sul mare delle nostre vite passate.
Sotto di noi, le onde erano quelle dei nostri ricordi, nostri di operatori in formazione, che nei giorni precedenti avevamo trascritto su migliaia di fogli di carta, appiccicati sul pavimento, le perdite che la vita ci ha inflitto, i dolori, i rimpianti, i nodi che non abbiamo saputo sciogliere.
C’era, in quel pavimento-mare, tutto quello che nella vita di ognuno di noi non tornava, tutto quello che non sarebbe più tornato.
C’era in quelle onde tutto quello che era scomparso, trasformato in una delle sue possibilità: qualcosa era fiorito, qualcosa era appassito, qualcosa era stato reciso.
Un mare, che a immaginarlo, era oscuro, pericoloso e agitato, proprio perché mosso dal dolore che ognuno di noi ci aveva messo dentro.
La perdita; era questo il tema del laboratorio esperienziale.
Oltre ai ricordi lasciati sul pavimento-mare, altri ne apparivano di continuo nella mia mente. Era come se si fosse aperta una botola e i ricordi potessero fluire liberamente, finalmente liberi di tornare vivi, nel presente, con la loro emozione originaria.
Nella mia vita precedente avevo a che fare con i barconi colmi di persone.
Per vari periodi li ho accolti sul molo di Lampedusa, e anche se era la mia vita precedente, a pensarci era solo qualche anno fa.
Mi sono spesso chiesto come fosse, essere su quei barconi; e ho cercato analogie, metafore, a decrittare la realtà con quel poco di cui dispongo.
Lo sbarco delle persone da un barcone è uno dei momenti più pericolosi.
Ricordo i volti intirizziti dal freddo e dal terrore ammorbidirsi lentamente mentre la barca si accosta alla banchina. Potevo quasi sentire nel mio viso i muscoli delle mascelle decontrarsi nel sollievo di una salvezza finalmente a pochi metri, e il mare aperto, il gelo, le onde che sfiorano la linea di galleggiamento, sono ricordi che non si vede l’ora di dimenticare.
Ma c’è un pericolo di cui i passeggeri non sanno nulla. L’ansia di scendere può ucciderli.
A volte accade che nell’euforia di voler scendere si alzino tutti assieme, e allora sbilanciano il barcone, che a ribaltarsi ci mette un attimo.
I migranti, non sanno nuotare, e se decine di loro cadono nell’acqua, molti finiscono per annegare a un metro dal molo.
Serve muoversi con ordine e armonia per mantenere l’equilibrio dinamico della barca sulle onde.
“Questo vale per ogni barca” mi sono detto, anche in quella non meno vera in cui sono con gli altri operatori di Liberation Prison Project.
E però, le parole, le emozioni che escono nei laboratori di formazione, rimangono là dove sono state dette, oltre che nei cuori di chi le ha ascoltate.
Non dirò nulla su questo.
Dirò che ho compreso che per tendere una mano che possa sperare di essere di aiuto, occorre che tu stesso ti sia bagnato nelle onde della sofferenza.
Dirò che dalle onde del dolore ti salvi solo se ti muovi in modo fluido, accogliente e aggraziato. Se fluisci assieme a lui.
Questa è stata l’esperienza della formazione.
È stata apprendere a navigare nelle perdite che ho patito, con un’attitudine di compassione e gentilezza, con la fluidità e l’armonia che, sole, possono tenerti a galla, noi e coloro a cui tendiamo la mano.
La nave di Liberation Prison Project è il Nautilus del Capitano Nemo.
“Mobilis in mobile” è un modo di essere, di seguire la rotta in armonia con il ritmo del mare, in una danza che fa della gentilezza e della compassione la cifra etica ed estetica del suo fluire.

Miriam ci condivide queste parole che intitola Un Viaggio Inaspettato
Come descrivere al meglio questo percorso come allieva-operatrice di Liberation Prison Project? È una bella domanda. È una bella domanda perché vi sono diverse risposte.

La prima, senza dubbio, è che ho iniziato questo percorso non sapendo bene cosa aspettarmi: avevo già sperimentato altre formazioni sulla crescita personale ma non avevo idea di cosa aspettarmi visto il contesto specifico del carcere. Da subito, sin dal primo modulo, ho colto la professionalità dei formatori e il loro “sapersi donare” senza alcuna forma di saccenza o superiorità.
Nel primo modulo, a cavallo tra l’ultima settimana di ottobre 2023 e i primi giorni di novembre, è stato interessante conoscere gli altri partecipanti alla formazione, e constatare la presenza di persone da tutta Italia. Persone che si mischiavano, iniziavano a entrare in confidenza, a condividere l’interesse per lo stesso sentire: la voglia di fare qualcosa, di aiutare.

È stato molto faticoso, gli orari serrati dalla mattina presto alla sera, ma tutto è trascorso nella massima armonia. Il luogo, l’istituto Lama Tzong Khapa è un luogo protetto, dove già nei corridoi si respira aria di “presenza”. Ogni pianta o formica che si aggira nel giardino pare sia il personaggio di un quadro.

A novembre ho contratto il covid, e ho dovuto perdere il secondo weekend di lavoro insieme. Mi è dispiaciuto tantissimo, intanto non fare il viaggio in auto con alcuni compagni, ma soprattutto perdere la formazione, il gruppo, l’atmosfera.

Il terzo modulo, quello coinciso con l’evento annuale, si è avviato con un workshop incentrato sul tema della perdita: è stato molto introspettivo. Mi ha permesso di fare focus su alcuni punti della mia vita, stimolata da un paio di laboratori esperienziali proposti dai docenti.
Sono partita per il ritiro con bassa energia, poca presenza e un po’ demotivata in generale.
Quando sono rientrata, per giorni ho avuto un’energia incredibile. Come se mi fossi ricaricata. Persone meravigliose, un luogo magico, concetti da assimilare interessanti e profondità ma anche leggerezza. Mi sono sentita “piena”, soddisfatta. Paga di aver intrapreso un viaggio e al termine aver trovato una nuova famiglia e amici.

A breve inizierò il mio tirocinio in carcere. Sono molto fiduciosa. Non mi sento sola, avverto la presenza di uomini e donne che prima di me hanno avuto l’ardire di iniziare qualcosa di non facile e insolito, ma tremendamente compassionevole e libero da pregiudizi.