È passato poco più di un anno da quando sono entrata al carcere di Bollate.
Guardando indietro, in questo breve tragitto, ho condotto tre gruppi di consapevolezza, stretto molte mani e ascoltato molte storie.
I primi due gruppi sono durati circa tre mesi, mentre l’ultimo (in fase di conclusione), circa sette mesi.
In questi gruppi, dopo una breve pratica iniziale per centrarci e portare all’attenzione dove siamo e cosa è vivo in noi nel momento presente, le persone detenute condividono le loro esperienze, si confrontano. Il gruppo si conclude con una pratica di chiusura, spesso centrata sul respiro. Ma quello che accade in un gruppo è molto più di questo perché, attraverso la condivisione, ci sono affinità, intuizioni (insight) che avvengono proprio grazie al fatto di essere insieme nel qui e ora, grazie al fatto che un proprio sentire viene espresso da qualcun altro con parole che sembrano parlare proprio di sé, portando chi partecipa a percepirsi più simile all’altro di quanto credesse, a sentirsi più vicino e, in ultima analisi, meno solo. E così, man mano che il gruppo cresce nel tempo, sempre più i partecipanti si supportano l’un l’altro.
Le esperienze che vengono portate in condivisione sono molteplici, ma ci sono alcuni temi ricorrenti: primo tra tutti la mancanza della propria famiglia, poi il dolore del distacco dopo un colloquio con i propri cari, i problemi di convivenza in spazi stretti con persone che non si conoscono, la mancanza della propria normalità del ‘prima’ di entrare in carcere, i conflitti con altre persone detenute, che possono sorgere per i più svariati motivi.
Le emozioni sono intense e qualcuno si abbandona a un pianto liberatorio. Ma c’è spazio anche per sorridere insieme e coltivare una leggerezza d’animo possibile ovunque ci sia il cuore di un uomo, anche in carcere.
Condividere, respirare in consapevolezza, accogliere e, quando possibile, lasciar andare: sono questi i passi che nel gruppo si possono fare insieme.
Un gruppo di consapevolezza in carcere è una esperienza umana senza confini, che parla di sguardi a volte persi, a volte carichi di rabbia e frustrazione, a volte (e sono le esperienze più belle) si tratta di sguardi definiti da un bagliore che ha il colore della speranza, della voglia di crescere, di cambiare, della consapevolezza che fa luce e dissipa qualsiasi buio, anche quello di una cella di detenzione.
Per questo nei gruppi ci siamo seduti in cerchio, abbiamo praticato esercizi di meditazione insieme, ascoltato il nostro respiro; ci siamo fermati e, fermandoci, abbiamo sperimentato innanzitutto questo: fermarsi è possibile. È possibile lasciare andare un pensiero che prima sembrava necessario. È possibile osservare un’emozione senza agirla. È possibile scoprirsi più stabili e più presenti, giorno dopo giorno, e condividere tutto questo con gli altri.
Ritroviamo, nelle parole pronunciate dai ragazzi che hanno partecipato ai gruppi, dei rimandi a queste e ad altre capacità che scoprono in sé stessi: “Ora sono più calmo, sto meglio”; “Ho scoperto l’importanza del respiro e questo mi ha cambiato”; “Ho scoperto di poter star bene anche io in gruppo, mi sono aperto”.
Una delle frasi che più mi ha colpito è recente, l’ha pronunciata un ragazzo del gruppo la scorsa settimana: “Quando sono arrivato in questo gruppo, non sapevo cosa ci facessi qui, adesso lo so!” E così dicendo ha sorriso agli altri, che hanno ricambiato il suo sorriso.