Cari lettori,
sono Alessia, lavoro nell’amministrazione e coordino le attività di formazione di Liberation Prison Project da circa un anno. Ho 26 anni e quando ho cominciato l’università volevo andare in Giappone, seguire la carriera diplomatica e diventare una persona importante, volevo fare la differenza. Quindi mi sono laureata una volta in relazioni internazionali, poi sono andata in Giappone per laurearmi in studi interculturali e poi sono scappata dal Giappone per tornare a Napoli, laurearmi un’ultima volta e arrivare qui, dove mi vedete ora. Quando dico alle persone quello che faccio e da dove vengo, molti pensano che io sia pazza. Sono giovane, ho un sacco di carte con titoloni dorati che mi avrebbero fatto guadagnare un posto fisso e uno stipendio stellato, quindi sarete d’accordo con mia mamma se vi dico che, quando le ho detto che volevo lasciare tutto questo e cambiare rotta per lavorare nel sociale, voleva che mi facessi vedere da uno bravo. Probabilmente anche perché a quel tempo non avevo nemmeno idea di cosa volesse dire questa cosa di “lavorare nel sociale”. Poi mi sono schiarita le idee e ho deciso di cogliere l’opportunità di lavorare con Liberation, le ho detto quello che facciamo, e lei ha detto che dovevo farmi vedere da uno molto bravo.

E lo capisco. Perché un giovane dovrebbe voler scegliere di fare questo lavoro? Perché sostenere questa causa? Il fatto è questo: io sono cresciuta in una generazione in cui ci hanno insegnato la moderna legge di Babilonia “occhio per occhio e dente per dente”, secondo la quale quando uno ti fa male, tu ti fai rispettare, non ti fai mettere i piedi in testa e restituisci tutto con gli interessi. Bene, ora guardatevi intorno e ditemi se secondo voi sta funzionando. Viviamo in un’epoca felice? Le notizie dal mondo non sono proprio rassicuranti su questo fronte. Allora, dato che se tutto va bene, tra una trentina d’anni sarò ancora qui, ho deciso di investire questo mio tempo per vedere se posso contribuire a cambiare prospettiva e mettere qualche seme buono nel mondo. E lo so che potevo anche andare a dare da mangiare alle persone povere oppure aiutare gli animali randagi a trovare una casa, ma come ha detto Voltaire un paio d’anni fa “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”.

In Liberation Prison Project ho potuto ritrovare il coraggio di donare le chiavi per la porta delle seconde possibilità. È sicuramente meno doloroso tenere lontane le cose che non ci piacciono, soprattutto se ci fanno paura o se ci hanno fatto male. So anche che ci sono errori più difficili di altri da superare e so anche che non tutti sono pronti a imparare dai propri sbagli. Nonostante ciò, quello che ho potuto toccare con mano nella mia giovane esperienza è che chi ha sbagliato e ha imparato, può dare molto di più di chi non ha sbagliato mai. E chi ha sbagliato e non ha nemmeno la possibilità di imparare, sbaglierà ancora.
Allora non dico che tutti i giovani debbano lasciare le banche e le ambasciate e tutti gli altri lavori fantastici che esistono nel mondo per venire a lavorare con noi che vogliamo lavorare con le persone detenute, ma ognuno ha nella propria vita un grande sacco di semi da piantare e ci sono tanti modi per scegliere quelli giusti. Quindi basta fare le partite di pallone con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra: possiamo giocare nella stessa squadra e piano piano vedrete che il campionato ce lo portiamo a casa lo stesso.