Teniamo moltissimo a questa rubrica, perché vogliamo rendere evidente quanto un collegamento tra “dentro e fuori” sia possibile. Lo è perché siamo tutti società: in essa stiamo e viviamo o – in certi casi – proviamo a rientrarci magari dopo anni di detenzione per i reati commessi.
Le voci dal carcere dunque saranno quelle degli operatori di LPP che ogni settimana entrano nelle varie carceri italiane. Apriranno uno spazio al loro sentire e, soprattutto, a quello delle persone detenute che condividono alcune testimonianze, grandi piccoli passi di vita e trasformazione.

Nessuna citazione sarà lesiva della privacy della persona che l’ha espressa.

Sarah Bracci dal Carcere di Milano Bollate
Quando ho iniziato ad operare in carcere nel 2015 l’utenza era selezionata, le persone detenute consideravano questo carcere una vera e propria conquista, solo dopo percorsi presso altre carceri si veniva ammessi in questo, dove si procedeva con corsi e percorsi scolastici veri e propri, verso un avviamento al lavoro, unica attenuante vera alla recidiva come ci dicono i numeri. Ora la mia percezione, che è comunque limitata e in tal senso deve essere presa, è che le cose siano peggiorate.
Sarebbe però bene ricordare che tutte le persone detenute prima o poi escono, anche gli ergastolani conquistano la semi libertà e se poco si è fatto per creare cause e condizioni per una vita alternativa, queste persone tornano a delinquere come ci illustrano le statistiche. L’interdipendenza che ci lega tutti procede inesorabile, le nostre case sono oggetto di furti, ai nostri giovani vengono offerte droghe di ogni genere e tipo e molto altro ancora. Anche le persone detenute di questi nuovi tempi sono differenti e nel reparto di reati comuni dove opero, spesso sono consumatori delle più svariate droghe che quando arrivano in carcere passano dalla dipendenza alla droga alla dipendenza dal carrello dei farmaci, qualcuno con più risorse si tira fuori da questo baratro e si rende conto di non avere più le stesse capacità cognitive, ti dicono “mi si è bruciato il cervello”; i più fortunati ti dicono “ho impiegato mesi a tornare quello di prima”. Quello che non è cambiato è che dietro ogni persona che delinque trovo spessissimo il desiderio, la speranza di ricevere un aiuto, una seconda possibilità, ma faticano a trovarle, a vederle, soprattutto dopo questi ultimi due anni di emergenza sanitaria che hanno avuto ripercussioni anche su molte attività che necessariamente sono state ridotte.

Elena De Marco dalla Casa Circondariale di Monza
Quarantene Covid, chiusure e cambi reparto, tamponi e attesa esiti hanno reso in questi mesi la vita in carcere ancor più difficile. È aumentato il senso di incertezza e disorientamento, soprattutto nella nuova ondata pre-natalizia quando sembrava tutto passato. A questo si aggiunge un sovraffollamento non solo numerico, ma di tensione e comunicazioni sovrapposte, confuse o mancanti che rende l’aria densa e riguarda tutti, le persone detenute, gli agenti, gli educatori, ogni livello esprime fatica. L’invito a respirare e a stare in quello che c’è mi riporta in ogni momento alla possibilità di ognuno di noi di provare a sperimentare consapevolezza e presenza in ciò che possiamo cambiare e soprattutto in ciò che non possiamo cambiare.

Sabrina Negretti dal carcere di Milano Bollate
Quando arrivo nelle stanze dedicate, le sedie sono già pronte, in cerchio. Le chiamate, con il microfono che annuncia l’inizio dell’incontro si rivelano praticamente inutili. Nonostante le difficoltà dovute ai due anni di emergenza sanitaria, che ha reso la vita detentiva ancor più isolata e priva delle opportunità di incontro, condivisione e crescita personale, laddove desiderato e possibile, loro sono lì, che attendono di potersi incontrare, con i propri vissuti, le proprie emozioni, in ascolto, degli altri, di sé!