Diversi studi provano gli effetti positivi della consapevolezza sulla popolazione carceraria: “Dietro le sbarre: antropologia del mondo di dentro” di Di Benedetto (2019) illustra con chiarezza come corsi e training di pratiche meditative risultino strumenti utili sia per modificare l’ambiente e le relazioni umane che nascono all’interno del carcere, sia per accompagnare il partecipante a una miglior comprensione di sé. Gli studi in essere dimostrano che questi percorsi agiscono:
– riducendo i livelli di ansia e depressione, con il connesso rischio di suicidi,
– riducendo il livello di rischio di reiterazione del reato,
– migliorando la capacità di gestire le emozioni spiacevoli.
Un aspetto, quest’ultimo, ricco di sfaccettature, che certamente meriterebbe maggiori indagini e ricerche per essere ancor meglio compreso.
In che modo la mindfulness facilita i processi di regolazione funzionale delle emozioni?
Dopo un training di mindfulness studi neuroscientifici ci permettono di osservare che diminuisce l’attività di aree del cervello collegate a un’esperienza molto intensa delle emozioni (come l’amigdala) e aumenta l’attività delle aree cerebrali prefrontali, zone del nostro cervello che ci permettono di “pensare le emozioni”, agendo un controllo cognitivo (Tang, Hölzel e Posner, 2015).
Un aspetto molto importante per tutta un’ampia casistica di reati collegati ad agiti frutto di impulsività.

La mindfulness inoltre allena un atteggiamento non giudicante rispetto a pensieri ed emozioni. Questa “disidentificazione” dai contenuti della mente facilita l’accoglienza delle proprie esperienze interne.

L’interpretazione delle emozioni come eventi mentali innocui e transitori determina un distanziamento o decentramento tra l’individuo e l’emozione vissuta e questa può essere accolta pienamente senza reazioni (Nyklíček, 2011).
Altri studiosi ipotizzano che il training di mindfulness sviluppi la regolazione emotiva attraverso l’incremento delle capacità attentive e della consapevolezza metacognitiva – cioè la capacità di vivere pensieri e sentimenti da una prospettiva decentrata – che, a sua volta, accresce l’abilità di tollerare le emozioni disturbanti (Corcoran, Farb, Anderson e Segal, 2009)
Una caratteristica che distingue i meditanti esperti è quella di poter sperimentare emozioni negative senza esserne sequestrati. Questa capacità, come possiamo immaginare, risulta molto importante per persone che soffrono di disturbi dell’umore e dell’ansia.
Osservando le emozioni nel momento in cui appaiono, in modo decentrato e non giudicante, e trovando un nome per descrivere le proprie esperienze interne, le persone riescono a identificare i propri stati emotivi, entrando in contatto anche con quelle emozioni che, in precedenza, venivano evitate. Le emozioni vengono così vissute e accolte senza necessariamente agirle o attivare meccanismi mentali che tendono ad amplificarle.
Tutti questi processi risultano strettamente connessi alla possibilità di rompere schemi di comportamento disfunzionali e implicano una portata potenzialmente rivoluzionaria non solo per la dimensione individuale ma anche per quella comunitaria e sociale, tanto da far auspicare una sempre maggiore diffusione della mindfulness e degli altri sturmenti di consapevolezza tra i programmi di trattamento per le persone in stato di reclusione.

– Iani L., Didonna F. (2017). Mindfulness e benessere psicologico: il ruolo della regolazione delle emozioni. In: Giornale Italiano di Psicologia, 2, 317-322. doi: 10.1421/87338
– Andreas Vossler et al., Mad or Bad: A Critical Approach to Counselling and Forensic Psychology, SAGE publications LTD, 2017.
– Jasmine Di Benedetto, Dietro le sbarre: Antropologia del mondo di dentro, Armando Editore, 2019